IL DOPPIO BINARIO TORNA A SBILANCIARSI A FAVORE DEL PENALE.
SE DA UN LATO IL GIUDICE PENALE NON PUÒ UTILIZZARE LE PRESUNZIONI TRIBUTARIE, DALL’ALTRO IL GIUDICE TRIBUTARIO DOVRÀ TENER CONTO DELLA SENTENZA PENALE.
Nell’ambito di un procedimento e di un processo penali che abbiano ad oggetto una fattispecie penale tributaria ovvero uno dei reati fiscali di cui al D.Lgs. n. 74/2000, non può trovare ingresso l’applicazione pura e semplice delle presunzioni di cui l’ordinamento tributario fa largo uso secondo criteri formalistici suoi tipici introdotti dal legislatore al fine di facilitare il compito dell’Amministrazione finanziaria nella ricostruzione del reddito del contribuente.
Si pensi, ad esempio, agli accertamenti induttivi emessi a norma dell’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973 che ricostruiscono l’imponibile sulla base di presunzioni semplicissime prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza (come nei casi di omessa dichiarazione o di inattendibilità delle scritture contabili) ovvero agli accertamenti bancari emessi a norma dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 che utilizzando le presunzioni legali relative (che attribuiscono natura reddituale ai movimenti non giustificati) comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.
Invero, un simile ingresso introdurrebbe surrettiziamente nell’ordinamento penale una presunzione di colpevolezza a carico dell’indagato-imputato, sul quale – per tale via – sarebbe incostituzionalmente rovesciato l’onere di provare l’infondatezza dell’assunto accusatorio ipotizzato nei suoi confronti.
La Corte Suprema di Cassazione continua ad esprimersi in tal senso, avvertendo che «la presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati», cioè disciplinati nella normativa tributaria, «non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale» (Cass. pen., sent. n. 44170 del 3 novembre 2023) e confermando quanto stabilito da tempo ovvero che «spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario…In sede penale…il giudice non può applicare le presunzioni legali, sia pure di carattere relativo, o i criteri di valutazione validi in sede tributaria» (Cass. pen., sent. n. 6823 del 17 febbraio 2015).
Persino la Corte Costituzionale ha avuto modo di fissare il medesimo principio, affermando che «nessuna conseguenza negativa per il contribuente indagato può derivare, nel procedimento penale, dal fatto che in sede tributaria sia stato effettuato un accertamento in base alla presunzione fondata sugli elementi risultanti dalla documentazione bancaria, accertamento rispetto al quale il contribuente non abbia potuto o non abbia voluto fornire giustificazioni idonee a smentire la imponibilità delle operazioni documentate: non avendo l’accertamento tributario così fondato, di per sé, alcuna ulteriore portata probatoria in sede penale, che vada al di là di quella propria della documentazione acquisita nella stessa sede, e trasferita in sede tributaria» (ord. n. 33 del 26 febbraio 2002).
Ciò dipende dalla diversa finalità che assume l’accertamento in sede tributaria e in sede penale: il procedimento tributario ha ad oggetto la verifica della legittimità della pretesa impositiva dell’Amministrazione finanziaria che agisce al fine di recuperare quelle somme illegittimamente non versate dal contribuente; da contro, nel procedimento penale si accerta se è stato commesso un fatto e se lo stesso costituisce reato, comminando una pena che ha finalità retributiva, di prevenzione generale e speciale, nonché rieducativa: «in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale» (Cass. pen., sent. n. 43330 del 26 ottobre 2023); «al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero in sé del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria»; quella penale, infatti, è «una norma che ha ad oggetto…i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza» (Cass. pen., sent. n. 44170 del 3 novembre 2023).
In tale ottica, il procedimento penale è coerentemente caratterizzato dal principio del libero convincimento (art. 192 c.p.p.) e dall’utilizzo limitato della prova indiziaria (art. 192, comma 2, c.p.p.: «l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti») che deve impiegare, infatti, indizi qualificati.
Dunque, argomenti d’ordine presuntivo possono essere utilizzati al fine di valutare la fondatezza della notizia di reato solo se e nei limiti in cui il procedimento logico-inferenziale risulta guidato da elementi obiettivi che lascino soltanto un minimo spazio all’arbitrio del giudice penale, escludendo radicalmente la possibilità di prospettare ipotesi alternative. Ad esempio, l’accertamento induttivo ha semmai soltanto valore di presunzione semplice, non esistendo in diritto penale quella legale: essa, pertanto, costituisce un indizio che deve trovare riscontro o in distinti elementi di prova o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti.
Sicché, anche qualora il giudice voglia, per ipotesi, considerare indizi le presunzioni utilizzate ai fini fiscali, dovrà comunque verificare la certezza e l’univocità delle circostanze indizianti, in modo da non dar luogo a molteplici induzioni, ma ad una soltanto; dovrà comunque verificare la pluralità e la concordanza degli indizi, come pure dovrà verificare che la circostanza indiziante, atta a legare gli altri indizi, sia certa e provata.
Anche la sentenza della Corte di Cassazione (n. 43330 del 26 ottobre 2023) che, in tema di omessa dichiarazione, invoca l’art. 189 c.p.p. – il quale esprime il principio di atipicità dei mezzi di prova proprio del processo penale – sostenendo conseguentemente che nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi delle risultanze degli accertamenti induttivi compiuti in sede tributaria, puntualizza tuttavia: «ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192 c.p.p., comma 1…al di fuori di qualunque presunzione e di ogni predeterminazione del loro peso probatorio».
Analogamente, altra sentenza della Corte di Cassazione (n. 44170 del 3 novembre 2023) sempre in tema di omessa dichiarazione precisa che il giudice penale «può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell’ambito delle attività di cui al D.P.R. n. 600 del 1970, artt. 31 bis, 32 e 33, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 3 e 4). In conformità a quanto prevede l’art. 220 disp. att. c.p.p., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti)».
Se questo è il punto in tema di utilizzo nel processo penale delle presunzioni tributarie che sono normalmente applicate nelle verifiche e negli accertamenti dell’Amministrazione finanziaria, altra cosa è – procedendo nella direzione esattamente opposta – il valore che la sentenza penale può avere nel contesto di un contenzioso tributario.
Al riguardo, con la imminente riforma del sistema penale tributario si tornano a sfumare i confini tra giudizio penale e giudizio tributario a favore del primo.
Un breve excursus può chiarirlo meglio: nella vigenza del c.d. “doppio binario” tra giurisdizione penale e giurisdizione tributaria (dovuta all’abolizione della pregiudiziale tributaria di cui all’art. 13 della L. n. 516/1982 che recava norme per la repressione dell’evasione in materia di Imposte sui redditi e sul valore aggiunto prima del D.Lgs. n. 74/2000), l’art. 12 della medesima vecchia normativa penale tributaria attribuiva però alla sentenza penale irrevocabile autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerneva i fatti materiali oggetto del giudizio penale.
Il codice di procedura penale abrogò tacitamente tale art. 12, prevedendo, al suo art. 654 (esteso a tutti i reati, anche se previsti da leggi speciali, dall’art. 207 delle norme di coordinamento del c.p.p.), l’efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo (e quindi anche tributario) della sola sentenza penale dibattimentale e ad una duplice condizione: che «i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale» e che «la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa» come però accadeva nel giudizio tributario.
Ne veniva, pertanto, desunta l’esclusione di qualsiasi effetto vincolante del giudizio penale su quello tributario: «la norma codicistica…ha introdotto la mancanza di limitazioni probatorie nel giudizio extra penale come condizione per l’efficacia preclusiva del giudizio penale. Ma tale condizione non ricorre per il processo tributario, che è caratterizzato da un sistema probatorio molto limitato rispetto a quello penale: basti pensare alle numerose ipotesi di presunzione legale, sia assolute che relative, o al divieto di testimonianza e giuramento…Sicché deve concludersi che…l’art. 654 del codice di procedura penale del 1988 ha abrogato implicitamente quella deroga, con l’effetto di…sopprimere qualsiasi effetto vincolante del giudizio penale sul giudizio tributario, a causa delle limitazioni del regime probatorio vigenti in quest’ultimo» (Cass. pen., sent. n. 10792 dell’8 giugno 1994).
La nuova disciplina del sistema penale tributario prevista dal D.Lgs. n. 74/2000, abrogato espressamente il titolo I della L. n. 516/1982 e dunque l’art. 12 in esso ricompreso, ha affermato la piena autonomia tra procedimento penale e processo tributario – evidenziata dall’esclusione della pregiudiziale penale prevista dall’art 20 del D.Lgs. n. 74/2000 – i cui rapporti sono dunque regolati dall’art. 654 c.p.p., il quale però – come indicato dalla relazione di accompagnamento al decreto legislativo del 2000 – appunto «esclude l’efficacia “esterna” del giudicato penale allorché la legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa».
Coerentemente la giurisprudenza di legittimità ha considerato che «l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario» (Cass. civ., ord. n. 16262 del 28 giugno 2017; conf. Cass. civ., ord. n. 30941 del 27 settembre 2019).
Tuttavia, pur nella vigenza del “doppio binario” tra processo penale e processo tributario, la giurisprudenza tributaria di merito e di legittimità ha spesso inteso riconoscere al giudice tributario il potere di valutare, autonomamente, la pronuncia penale in modo da farla confluire tra gli altri elementi di prova emersi nel contenzioso tributario per rafforzare la propria convinzione sul merito della questione sottoposta al suo esame (dal decreto di archiviazione, alla sentenza di assoluzione o di condanna ivi compresa la sentenza di patteggiamento, quest’ultima inizialmente concepita come una pronuncia giurisdizionale ininfluente perché “senza giudizio” con riguardo alla fondatezza dell’accusa e alla responsabilità dell’imputato e poi considerata come l’implicito riconoscimento della propria colpevolezza).
Ora l’art. 20 della delega per la revisione del sistema tributario intende prevedere, in caso di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, che i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti stessi.
Considerato che la modifica apportata dalla L. n. 130/2022 all’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, ammettendo la prova testimoniale, ha inferto un vulnus importante alla limitazione della prova nel processo tributario, la previsione dell’efficacia del giudicato penale potrebbe ritenersi persino coerente con l’art. 654 c.p.p., salvo poi verificare come realizzarne l’effettivo riconoscimento in mancanza di un coordinamento tra i due processi.
Dott.ssa Barbara Rossi
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