Argomento: Sanzioni e contenzioso – Legislazione e prassi
Nel presente lavoro si illustrerà l’intervento operato con l’art. 6, comma 1, della Legge 130/22, che ha introdotto nel corpo dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 il nuovo comma 5-bis. Tale disposizione conferma alcune regole processuali da tempo acquisite in ambito tributario (in particolare, quelle concernenti i tipi di prova utilizzabili, le modalità della loro acquisizione, la distribuzione degli oneri probatori, i poteri di iniziativa del giudice) e, nel contempo, ha un contenuto innovativo, poiché incide sul regime della prova nel processo tributario, modificandolo a favore del contribuente e prendendo a riferimento il modello processual-penalistico. Il presente contributo rappresenta il testo rielaborato della relazione presentata al Convegno “L’Onere della prova nel sistema giurisdizionale”, tenutosi a Chieti il 5-6 dicembre 2024.
PAROLE CHIAVE: processo tributario – giudice tributario – prova
di Loris Tosi
- Il comma 5-bisdell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, aggiunto dall’art. 6, comma 1, della L. n. 130/2022, così dispone: «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati».
Diciamo subito che siamo di fronte ad un insieme di disposizioni immediatamente applicabili, valevoli per tutte le cause pendenti alla data del 16 settembre 2022, trattandosi di norme di natura processuale (che, oltretutto, incidono sulle regole di giudizio) in ordine alle quali il legislatore, solitamente attento alle tematiche di diritto intertemporale, non ha sentito l’esigenza di derogare al noto principio tempus regit actum.
- Non si può dire che il comma 5-bisabbia incontrato i favori della dottrina che ne ha rimarcato la non adeguata formulazione letterale e l’impropria collocazione all’interno dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 che, pur rimanendo rubricato “poteri delle corti di giustizia tributaria”, finisce con l’assumere i connotati di un articolo omnibusche ora spazia dalla individuazione dei mezzi istruttori, ai poteri del giudice, all’oggetto della prova, al riparto degli oneri probatori tra le parti in causa, alle regole di valutazione delle prove.
In effetti, se il lessico utilizzato dal legislatore potrebbe non favorire interpretazioni univoche, qualche elemento circa “l’intenzione del legislatore” può essere tratto dalla lettura dei lavori preparatori.
Da questi si può evincere agevolmente che l’obiettivo del legislatore era quello di incidere sul regime probatorio del processo tributario a vantaggio del contribuente, ancorché movendo dall’errato presupposto che la materia tributaria, diversamente da quella penale, non fosse sufficientemente garantista perché caratterizzata da una generale e svantaggiosa inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.
- Il contenuto del comma 5-bispotrebbe essere scomposto in due parti.
Il primo periodo, la prima parte del secondo periodo e l’ultimo periodo non mi sembra vadano oltre la mera conferma di regole processuali da tempo acquisite. Mi riferisco ai passaggi in cui si stabilisce che:
- l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato;
- il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono dal giudizio;
- il giudice annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria;
- spetta al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso.
Ritengo che nessuna delle quattro prescrizioni alteri le regole concernenti i tipi di prova utilizzabili, le modalità della loro acquisizione, la distribuzione degli oneri probatori, i poteri di iniziativa del giudice, come desumibili dagli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 e 2729 cod.civ.
Tali regole non vengono modificate ma, nel momento in cui si è voluto codificarle nell’ambito del diritto processuale tributario, si sono effettivamente create le premesse per alimentare, anziché dissolvere, i dubbi interpretativi che notoriamente le accompagnano.
Così, ad esempio, la prescrizione sub a) potrebbe far sorgere il dubbio che l’amministrazione, dovendo “provare in giudizio” le violazioni contestate con l’atto impugnato, sia legittimata a farlo per la prima volta in quella sede.
Questa tesi non è però condivisibile perché porterebbe a vanificare l’obbligo di indicare i mezzi di prova su cui si basano i propri provvedimenti sin dalla fase amministrativa, obbligo sancito da previgenti disposizioni settoriali (quali ad esempio l’art. 56 del D.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA e l’art. 16 del D.Lgs. n. 472/1997, in materia di irrogazione delle sanzioni) al quale si accompagna il divieto di modificarli, integrarli o sostituirli in un secondo momento (leggi: nella fase processuale), come da ultimo confermato, in termini generali, dall’art. 7, comma 1 e 1-bis, dello Statuto dei diritti del contribuente (in virtù delle modifiche apportate allo Statuto dal D.Lgs. n. 219/2023).
Da un diverso angolo visuale, la medesima prescrizione sub a) potrebbe indurre ad attenuare (se non ad elidere del tutto) la portata del “principio della vicinanza della prova” in materia tributaria, quantomeno nel caso in cui esso porti a gravare il contribuente di oneri istruttori aggiuntivi in deroga all’art. 2697 cod.civ.
Ma anche a questa tesi può essere obiettato che il “principio di vicinanza della prova” non necessita di essere codificato perché si tratta di un principio sovraordinato per così dire “immanente”, espressione del duplice canone di effettività della tutela giudiziaria e del giusto processo, sancito sia dalla Carta costituzionale (vedi artt. 24 e 111) sia dalla normativa europea (art. 47 Carta europea dei diritti fondamentali dell’UE e art. 6, § 1, CEDU).
Ed ancora, la prescrizione sub d), nell’addossare al contribuente oneri probatori soltanto in tema di rimborso, potrebbe avallare la tesi secondo cui egli ne è oggi esentato ad ogni altro fine, quale ad esempio in tema di deducibilità dei costi, diritto ad agevolazioni, spettanza di crediti d’imposta.
Ma questa tesi confida troppo nell’interpretazione a contrariis che nel diritto tributario non è particolarmente attendibile e, comunque, nel silenzio della legge, non può prevalere su un’interpretazione sistematica. Questa – a mio avviso e secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (in questo senso, tra le ultime, vedi: Corte Cass., sez. trib., ord. 19 settembre 2024 n. 26985; Corte Cass., sez. trib., ord. 18 agosto 2022 n. 24880) – conserva in capo al contribuente sia la prova dei fatti impeditivi del diritto di credito dell’amministrazione (quanto all’effettività e all’inerenza dei costi) sia la prova dei fatti costitutivi del diritto di credito del contribuente stesso (quanto alla spettanza di agevolazioni fiscali e titolarità di crediti d’imposta).
- Ma, al netto di simili criticità interpretative, il contenuto del comma 5-bismi sembra piuttosto chiaro, soprattutto in quella che potremmo chiamare la sua parte centrale (la seconda parte del secondo periodo).
Mi riferisco al passaggio in cui il comma 5-bis commina l’annullamento dell’atto impositivo se la prova è «comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale … le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni».
Con questa formulazione, ritengo che il legislatore abbia effettivamente inteso innovare dal profondo il regime della prova nel processo tributario, modificandolo a favore del contribuente e prendendo a riferimento il modello processual-penalistico.
Ciò trova conferma nel contenuto degli emendamenti presentati durante l’iter parlamentare.
In effetti, sancire che l’atto impositivo va annullato «se la prova della sua fondatezza manca, è contraddittoria» e poi aggiungere «o è comunque insufficiente a dimostrare …» equivale a stabilire che il giudice debba pronunciare sentenza di assoluzione «anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che….» (art. 530, comma 2, c.p.p.).
Come pure pretendere che la prova sia sufficiente «a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva» non si differenzia molto dal pretendere il superamento della soglia di «ogni ragionevole dubbio» posta dall’art. 533, comma 1, c.p.p.
In altre parole, la parte centrale del comma 5-bis, mi sembra confermi che il legislatore puntasse ad un maggior rigore nella valutazione delle prove a carico del contribuente, adottando degli standard probatori molto simili a quelli tipici del giudizio penale. Standard rispetto ai quali appaiono incompatibili molte ricostruzioni presuntive, se non meramente indiziarie o possibilistiche, consacrate da una diffusa giurisprudenza tributaria (tra cui quelle non a caso denominate “presunzioni giurisprudenziali”, per esempio in materia di tassazione delle società a ristretta base o di operazioni soggettivamente inesistenti o di somministrazione di manodopera), presunzioni che operano spesso in modo quasi automatico sulla base di una ricostruzione dei fatti solo “verosimile” o “non inverosimile”.
- Al riguardo, un approfondimento merita altresì l’inciso «comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale».
Esso può assumere un duplice significato.
Da un lato che, nel valutare le prove, il giudice deve ispirarsi alla normativa sostanziale di riferimento.
Dall’altro lato che, nel valutare le prove, il giudice non può giungere a conclusioni contrastanti con il diritto sostanziale, anche in materia di prove: si tratta di numerose fattispecie che prevedono predeterminazioni o presunzioni legali, o incidono ad altro titolo sul regime probatorio (come ad esempio le decadenze comminate dall’art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 o dall’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972; o le regole presuntive stabilite dall’art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973 o ancora le prescrizioni documentali poste dall’art. 53 del D.P.R. n. 633/1972), normalmente poste a presidio dell’interesse erariale.
Nel primo caso, la precisazione appare pleonastica, perché si risolve in un elementare criterio interpretativo. Mentre, nel secondo caso, riveste una sua utilità perché, nell’intento di trasporre all’ambito tributario gli standard valutativi del processo penale, sta a significare che, nel processo tributario, continuano pur sempre a valere le suddette norme sostanziali in materia di prove (norme che viceversa non vincolano il giudice penale).
- Il punto è che la norma, complessivamente considerata, stabilendo una regola di giudizio rivolta ai giudici tributari, ed essendo priva di qualsiasi sanzione processuale, si presta ad essere liberamente attuata.
Più che ad un vero precetto, ci troviamo di fronte ad un “auspicio”: quello che i giudici tributari raccolgano questa sorta di monito e modifichino determinati orientamenti giurisprudenziali favorevoli all’amministrazione finanziaria in termini più garantistici per il contribuente.
Non vi è dubbio che, da questo angolo visuale, appaia più completa la disciplina del processo penale laddove, a fronte di norme – come abbiamo visto – similari, è stabilito che «il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati» (art. 192, comma 1, c.p.p.): obbligo di valutazione e rendicontazione che limita il principio del libero convincimento del giudice e la cui mancanza può essere dedotta come motivo di impugnazione della sentenza.
In ogni caso, nonostante la formulazione della norma, la mancanza di una sanzione processuale esplicita ha senz’altro agevolato l’interpretazione svalutativa della Corte di Cassazione la cui giurisprudenza – ormai uniforme ed in contrasto con numerose (ma non tutte le) pronunce delle corti di merito – nega la portata innovativa dell’intero comma 5-bis in esame.
Il principio di diritto viene sostanzialmente ribadito nei seguenti termini: “in tema di onere probatoria gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5-bis, introdotto dall’art. 6 della L. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, né preclude il ricorso alle presunzioni semplici (disciplinate dagli artt. 2727 e ss. cod. civ.) ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale” (vd, tra le altre: Cass. sent. n. 29289/2024, n. 26473/2024, n. 22320/2024 in materia di società a ristretta base; Cass. sent. n. 20816/2024 e n. 26014/2024 in materia di presunzioni bancarie; Cass. n. 22235/2024 e n. 16493/2024 in materia di operazioni oggettivamente inesistenti; Cass. n. 22565/2024 e n. 204247/2024 in materia di esenzione IMU esercizio attività di culto).
- Nell’attesa (probabilmente vana) che la Corte di Cassazione modifichi il proprio pensiero o che, comunque, si affermi nel diritto vivente un orientamento giurisprudenziale più consono al dettato della parte centrale del comma 5-bis(solo Cass. 21401/2024 apre alla possibile portata innovativa del comma 5-bisper le presunzioni semplici, ma accoglie comunque il ricorso dell’avvocatura perché la norma avrebbe natura sostanziale e, pertanto, non sarebbe retroattiva ed applicabile al caso di specie), ritengo che la più importante innovazione in tema di regime probatorio nel processo tributario si evinca indirettamente dal nuovo art. 21-bis del D.Lgs. n. 74/2000 [introdotto dall’art. 1, lett. m), del D.Lgs. n. 87 del 2024] rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”
Come noto, l’art. 21-bis sostanzialmente riproduce i principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 111/2023 stabilendo, al primo comma, che «la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi».
Anche questa disposizione, che codifica taluni isolatissimi precedenti giurisprudenziali, è immediatamente applicabile (la giurisprudenza della Suprema Corte è, sin qui, costante: vd, tra le altre, Corte Cass., ord. 3 settembre 2024, n. 23570 e Corte Cass., sez. V, 2 dicembre 2024, n. 30814) e presenta delle criticità.
Anzitutto, non è semplice stabilirne la ratio che da taluno è ricondotta al tema del ne bis in idem, rispetto al quale tuttavia risulta poco coerente laddove il duplice processo non viene affatto precluso in caso di condanna in sede penale.
Piuttosto, sembra di intravvedere una ratio di favore per il contribuente/imputato che però non può trovare giustificazione nella maggior affidabilità dell’istruttoria penale rispetto a quella tributaria (giacché, se così fosse, il giudicato penale dovrebbe vincolare il giudice tributario anche in malam partem).
In secondo luogo, altera il tradizionale canone del “doppio binario” in modo disorganico.
Ciò non solo per la sua portata (inevitabilmente, visti i criteri fissati dalla legge delega) “asimmetrica”, dato che a valere in sede tributaria sono unicamente i giudicati favorevoli al contribuente e non viceversa, ma anche perché ignora totalmente l’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000 il quale, come noto, prevede il divieto di sospensione del processo tributario in pendenza del processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti.
Questa regola è coessenziale al principio del doppio binario e ne rappresenta il logico corollario.
Ma che senso ha averla conservata nel momento in cui il principio del doppio binario viene abbandonato?
Se i due giudizi sono tra loro indipendenti, hanno tempi e priorità casuali e possono approdare ad esiti divergenti, non è logico (né utile) subordinare l’iter processuale tributario alle vicende del processo penale.
Ma se, come avviene ora, il giudicato penale può vincolare il giudizio tributario, il sopravvissuto divieto di sospendere quest’ultimo può essere causa di enormi diseconomie processuali ed economiche (per le finanze pubbliche).
Basti pensare all’eventualità che un intero processo tributario, magari già sviluppatosi oltre il secondo grado di giudizio, con esiti favorevoli all’Amministrazione, venga travolto da una sentenza penale di assoluzione divenuta definita solo all’ultimo momento.
Tale eventualità non è affatto remota ed anzi è espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 21-bis secondo cui «la sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione fino a 15 giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio».
- Ma, a parte ciò, l’aspetto che maggiormente interessa è che, per effetto dell’art. 21-bis, la sentenza penale irrevocabile (alle condizioni ivi previste) irrompe nel processo tributario ancora pendente senza che però siano stati resi omogenei i rispettivi regimi probatori. Ciò vale per il tipo di prove utilizzabili (con particolare riferimento alle presunzioni legali e giurisprudenziali, che notoriamente non vincolano il libero convincimento del giudice penale mentre condizionano con una certa frequenza il giudizio tributario), per la prova testimoniale (di recente introdotta nel corpo dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, ma solo in forma scritta e con una serie di limitazioni). Ma anche, e soprattutto, per le regole vigenti in tema di riparto degli oneri probatori e in tema di criteri di valutazione delle prove.
La norma è chiara: qualora, a seguito di dibattimento, sia stata pronunciata assoluzione con la formula più favorevole (“il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”), il giudice tributario deve adeguarsi alla sentenza penale, a prescindere dalle diversità che intercorrono tra il regime probatorio tributario ed il regime probatorio penale, senza alcuna facoltà di valutare e/o ponderare le prove che provengono da quest’ultimo.
In altre parole, ove si realizzino i requisiti del citato art. 21-bis, il regime probatorio che connota il processo tributario viene letteralmente travolto.
Ma vi è un ulteriore aspetto che a me sembra ancor più rilevante ai fini che qui ci occupano.
La regola dell’ultraefficacia della sentenza di assoluzione e, quindi, le implicazioni che essa comporta riguardano anche le sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p. giacché la mancanza, l’insufficienza o la contraddittorietà della prova che il fatto sussista o che l’imputato lo abbia commesso, porta comunque all’assoluzione, con formula piena, perché il fatto non sussiste (in questi termini vedi, ad esempio, Cass. Pen., 11 novembre 2022, n. 43598).
- È stato osservato come ciò si traduca in un fattore di discriminazione (oltretutto casuale) tra contribuenti: da un lato, i contribuenti che concorrono alle spese pubbliche in base ad un reddito accertato dal giudice penale; dall’altro lato, i contribuenti che concorrono alle spese pubbliche in base ad un reddito accertato dal giudice tributario.
L’osservazione è fondata e descrive un fenomeno destinato a diffondersi ove perdurasse l’orientamento svalutativo sin qui sposato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Per contro, l’opposta lettura della parte centrale del comma 5-bis, che ne valorizzi la lettera e la ratio desumibile dai lavori preparatori, ridurrebbe il rischio di una simile discriminazione perché allineerebbe il regime processuale tributario al regime processuale penale.
Se questa condizione si realizzasse, il comma 5-bis rappresenterebbe un ulteriore passo lungo il percorso di avvicinamento e reciproca contaminazione tra processo tributario e processo penale.
Percorso che va in direzione opposta a quella cui guarda l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992 (secondo cui, come noto, lo schema processuale di riferimento per il processo tributario dovrebbe essere il codice di procedura civile), ma è da tempo iniziato proprio sul terreno probatorio.
Mi riferisco alle norme che, ormai da qualche anno, qualificano il pagamento del debito tributario – nella misura quantificata in sede tributaria – come causa attenuante (art. 13-bis, comma 1, del D.Lgs. n. 74/2000), o come causa di non punibilità (vedi art. 13, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 74/2000) o come condizione per accedere al patteggiamento (art. 13-bis, comma 2, del D.Lgs. n. 74/2000).
Link per il collegamento: La nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario